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mercoledì 27 aprile 2011

Il lungo passo dal secessionismo al federalismo

Il federalismo è una realtà politica contemporanea che, nella maggior parte dei casi, nasce dalle confederazioni di polities alleatesi per difendersi dalle potenze straniere e favorire il commercio tra le parti confederate. Tuttavia può anche verificarsi che i movimenti centrifughi dovuti ad un processo incompleto di nation-bulding, generino un federalismo con forte motivazione endogena. Questo potrebbe essere il caso dell'Italia. È nota la volontà secessionista padana, espressa dalla Lega Nord, il più conosciuto ma non certo l'unico movimento secessionista presente nel nostro bel Paese in cui, a distanza di 150 anni dalla sua unità politica, molti studiosi lamentano non solo la mancanza di una reale unificazione del così detto popolo (demos), ma una sempre maggiore volontà secessionista man mano che il fervore risorgimentale si affievolisce. Stupisce infatti la miriade di movimenti secessionistici che pullulano per la penisola con delle rivendicazioni che non è possibile liquidare come assurde, sovversive o anacronistiche, se su rivendicazioni analoghe la Lega sta costruendo la sua fortuna elettorale.


Se dobbiamo dare una lettura obiettiva, probabilmente si tratta di movimenti senza futuro, di cui però non può sfuggire la forte carica provocatoria: l’Italia resta la terra dai mille campanili, dove, nonostante la funzione unificatrice svolta dalla televisione, dalla religione, dai mass media e dall’arrivo degli extracomunitari (che ha attenuato di molto la contrapposizione ) tante identità territoriali e culturali gridano alle ingiustizie passate e presenti.
E’ la situazione più propizia per riproporre il federalismo, che si presta meglio di qualsiasi altra forma di governo a ricomporre tutte queste differenze, a far convivere insieme realtà molto diverse tra di loro rispettandone le peculiarità, proprio secondo la tesi inascoltata di Carlo Cattaneo all’indomani dell’unità.
Dal secessionismo è, oltre che possibile, anche opportuno fare un passo verso il federalismo, come vorrebbe la Lega, ma si tratta di un passo che richiede estrema consapevolezza storica e critica, oltre che volontà politica costruttiva, non solo da parte del Governo, ma anche e soprattutto da parte di chi dovrebbe vivere sulla propria pelle questa nuova esperienza passando dalla teoria alla prassi: noi italiani tutti, appunto.
Cosa è stato fatto finora? Un breve exursus è, a questo punto, d’obbligo. All'indomani dell'unità d'Italia, nonostante una realtà territoriale profondamente diversificata, sia per motivi economici (il regno di Sardegna era indebitato e sull'orlo del collasso, molto propenso quindi ad assorbire l'intera ricchezza del regno delle due Sicilie) che ideologici, per via delle correnti mazziniane, di Cavour e Minghetti, in Italia prevalsero le ragioni del centralismo e della centralizzazione, anziché quelle del federalismo, con la conseguente standardizzazione amministrativa e omogeneizzazione culturale, per portare il neonato Stato italiano ad un assetto strettamente unitario. Solo dopo la caduta del fascismo, la Costituzione del 1948 introduce la variante dello Stato regionale creando così un debole compromesso tra le ragioni federali e quelle unitarie. Comincia così un processo di decentramento portato avanti a singhiozzi e senza molta convinzione, soprattutto in concomitanza di onde lunghe destate da coeve esperienze europee.
La prima tappa del decentramento, in applicazione del dettato costituzionale, si è raggiunta negli anni '70, dietro la spinta neo-regionalista europea, che lascia anche in Italia una debole impronta, portando all'istituzione di una regionalizzazione caratterizzata da una visione minimalista dell'istituto regionale ordinario, che, secondo una concezione superficiale della realtà storico-culturale italiana, a differenza del regionalismo a statuto speciale, non risponderebbe ad esigenze territoriali, legate cioè alla necessità di governare squilibri economici e diversità linguistiche presenti sul territorio.
Un’altra importante spinta è data della riforma Bassanini del 1997, grazie alla quale le regioni diventano soggetti primari nell'attuazione della legislazione nazionale, cui segue nel 2000 l’abolizione dei trasferimenti statali vincolati alle regioni.
Il processo di revisione costituzionale in chiave federale prosegue con il referendum del 7 ottobre del 2001 confermativo della legge costituzionale 3/2001, che oltre a rafforzare il principio di autonomia di entrata e di spesa, aumenta sensibilmente le garanzie centro-vincolanti a tutela del potere legislativo regionale, non più soggetto al controllo preventivo delle leggi da parte del Commissario di governo.
A questo quadro, perché si possa iniziare a parlare di federalismo, manca un importante tassello: in una federazione le polities sovrane rinunciano ad una parte del loro potere dando vita ad una polity che le comprende al suo interno senza avere un centro politico dominante, bensì una condizione di pari legittimità costituzionalmente garantita, che investe tanto il centro federale quanto i centri federati. Sul piano istituzionale e amministrativo il federalismo si contraddistingue per la presenza di meccanismi centro-vincolanti capaci di impedire ad una singola polities di decidere liberamente e unilateralmente della distribuzione dell'esercizio del potere. A partire dal prototipo americano, la partecipazione delle entità federate alla decisione nazionale viene garantita dalla seconda camera del parlamento federale, dove non siedono i rappresentanti del demos, come negli stati unitari, ma quelli delle polities componenti la federazione. In questo modo il bicameralismo che attualmente serve da strumento di maggiore tutela della rappresentanza democratica dei cittadini all'esercizio del potere, funge anche da garante dell'autonomia e dell'integrità delle entità federate.
È a questo punto che si evidenzia l’anomalia italiana: oltre ai forti limiti del potere legislativo regionale, il nostro ordinamento non prevede alcuna forma di rappresentanza regionale nel parlamento nazionale, mentre, paradossalmente, a livello di Unione Europea le regioni non solo italiane hanno una rappresentanza.
Si deve a questo punto rimarcare la più macroscopica insita nelle scelte attuate dall’attuale classe dirigente: avviando il “federalismo fiscale” si è cominciato a costruire dal cappello e non dalle fondamenta, evidenziando la componente egoistica alle origini di tale scelta.
«Con l'avanzamento del federalismo fiscale, subentra un sempre crescente finanziamento delle maggiori spese decentrate, in prevalenza con tributi propri o con compartecipazioni, anziché con trasferimenti tarati sulle spese, come nel passato. Siccome tributi propri e compartecipazioni, sul territorio, sono in genere molto più sbilanciati delle spese, mentre le dosi di perequazione delle capacità fiscali territoriali possono essere anche notevoli ma non possono essere che parziali, altrimenti sarebbe lo stesso concetto di federalismo fiscale a venir meno, viene inevitabilmente innescato il conflitto sociale» (G.Vitaletti) che si concretizza nel conflitto tra le regioni “ricche” e quelle “povere” che vedrebbero ridursi i servizi pubblici o dovrebbero pagare molto di più per ottenere gli stessi servizi di prima. In effetti questo è quello che sta già avvenendo.
Non si può innescare un processo di tale portata senza prevedere un minimo di correttivi. Ad un'attenta analisi, le disuguaglianze economiche che dividono l'Italia in due, potrebbero essere ridimensionate con il federalismo fiscale, ma a condizione che questa misura non venga lasciata isolata in un contesto che vede non ancora chiaramente individuate responsabilità e mansioni, con il frantumarsi tra mille Enti, anche locali, della distribuzione di compiti e competenze - cosa che impedisce la concreta operatività degli Enti pubblici e delle istituzioni- e soprattutto a condizione che non venga meno, come vorrebbe la Lega Nord, l'aspetto cooperativo e di solidarietà tra le polities ( richiesto dall'espansione del welfare state avutasi a partire dagli anni Settanta) che caratterizza l'organizzazione interna di tutti gli stati federali e che ha consentito, tanto per fare un esempio, in pochi anni, dopo la caduta del muro di Berlino, alla ex Germania dell’Est di superare il forte gap accumulato durante il regime sovietico.